20 maggio 2019

Giappone all'avanguardia in economia

Pubblicato in: Economia & Mercati

“Heisei” in giapponese significa “pace ovunque” o, più precisamente, “compimento della pace”. È la parola che ha contraddistinto l’era iniziata l’8 gennaio 1989, con l’ascesa al trono dell’imperatore Akihito dopo la morte del padre Hirohito, l’imperatore del periodo Shōwa, della “pace illuminata”. Questo antico cerimoniale segna la linea di demarcazione tra un’era che si chiude e una che si apre, tra la fine della reggenza di un imperatore e l’ascesa al trono del suo successore. Il passaggio viene celebrato con la “Golden Week”, vacanza che il governo concede al popolo per festeggiare l’evento: tutto chiuso, persino la Borsa.

 

Antico cerimoniale giapponese

Quest’anno la festa ha avuto una durata eccezionale di 10 giorni. Sì, perché il 30 aprile 2019, in seguito all’abdicazione di Akihito, è salito al trono il figlio Naruhito, 126esimo Imperatore del Giappone, il quale ha inaugurato una nuova era: “Reiwa”, cioè della “bella armonia”. Un passaggio che, nella più antica monarchia del mondo, deve rispettare dettami precisi e delicati. E forse sono proprio questi i problemi principali di un Paese ritenuto da molti, anche dalla sua stessa popolazione, troppo maturo, incapace di innovare ed economicamente impantanato, dove da un lato consumi e produzione industriale sono frenati e dall’altro splende il sole sull’occupazione, da un lato i prezzi al consumo sono sempre invischiati in una sorta di deflazione e dall’altro il costo della vita è sempre più alto.

 

A cavallo fra tradizione e avanguardia

Sono alcune fra tante contraddizioni di un Paese che, se da una parte mantiene vivi i suoi cerimoniali restando ancorato al passato, dal punto di vista finanziario potrebbe essere considerato un precursore dei tempi. Perché è qui che è nato, con grande anticipo rispetto alle aree economiche del resto del mondo, il Quantitative Easing. I semi di questo esperimento di politica economica e monetaria vengono piantati nel gennaio del 1990, quando un Giappone in piena corsa economica e finanziaria vive il trauma dello scoppio dell’enorme bolla speculativa immobiliare, che stronca ogni velleità espansionistica. Il Paese è improvvisamente a terra, la sfiducia dilaga frenando consumi e investimenti, le imprese sono costrette ad arretrare e le banche si ritrovano in carico mutui su abitazioni dal valore gonfiato, difficilmente solvibili.

 

Le munizioni della banca centrale

La Bank of Japan decide allora di aggredire recessione e fase post bolla speculativa con massicci interventi monetari. Innanzitutto, abbassa aggressivamente i tassi d’interesse fino a portarli vicini allo zero, in anni in cui i tassi si attestano sulla doppia cifra. L’intento giapponese è quello di riportare velocemente il denaro a circolare nel sistema. Ma la strategia non sortisce gli effetti desiderati e la banca centrale è costretta a una seconda mossa: colpire i tassi a lungo termine. Un’altra iniziativa pioneristica, perché fino a questo momento, muovendo le leve dei tassi, le banche centrali possono influenzare solo quelli a breve, mentre le scadenze più lunghe sono decise dai movimenti di mercato. La banca centrale “viola” questa regola cominciando a comprare titoli di Stato a lungo termine, abbassando il livello dei tassi. Un’anticipazione di quello che avremmo poi visto negli ultimi anni con il Quantitative Easing.

 

Ma i risultati non sono quelli sperati

L’avanguardia giapponese in termini finanziari non si ferma qui. Con l’arrivo di Shinzo Abe, la banca centrale diventa il braccio esecutivo del governo per ancora maggiori iniezioni di liquidità. L’obiettivo? Sconfiggere la debolezza economica successiva alla grande crisi del 2008 e soprattutto combattere il male endemico del Paese: la deflazione. Bisogna però ammettere che questi enormi sforzi non hanno mai ottenuto grandi risultati, o almeno non sono riusciti a tradurre in realtà ciò che prospettavano sulla carta. Ma se in Giappone non hanno prodotto l’esito desiderato, le stesse misure di emergenza, sperimentate in altri Paesi e in tutto il mondo occidentale, hanno invece raggiunto ben altri risultati. Alan Greenspan, come tutti gli altri banchieri centrali, Mario Draghi su tutti, se accostati all’esperienza giapponese, possono essere definiti i grandi imperatori dell’economica mondiale.

 

Il trentennio dell’espansione

Se avessimo potuto usare una parola per i 30 anni dal 1989 a oggi, mutuando il cerimoniale nipponico, avremmo dovuto usare il termine “espansione”. Economica, nei Paesi che trent’anni fa erano dormienti e oggi sono protagonisti e in quelli già maturi che si sono sviluppati costantemente. E finanziaria, in gran parte degli strumenti e in particolare nelle Borse. Pensate, solo per fare un esempio, che negli ultimi trent’anni l’indice Dow Jones si è moltiplicato di quasi 20 volte. Soprattutto, espansione monetaria, intesa come produzione di moneta attraverso il canale delle banche centrali. Se solo trent’anni fa un ideale imperatore avesse pensato alla parola “espansione” come simbolo della sua era, la storia gli avrebbe dato più che ragione.

 

Ma la sfida continua

 

Una crescita costantemente sorretta da tassi bassi, o a livello zero, e da tre forti stimoli:

• Abenomics, il taglio delle tasse voluto dal premier giapponese Abe (anche in questo caso, il Giappone si è dimostrato all’avanguardia);

• L’enorme stimolo fiscale del presidente USA Donald Trump;

• Gli interventi fiscali promessi da Xi Jinping per la Cina.

E non è finita, perché sempre dal Giappone emergono nuove proposte, sempre più aggressive, in cui neanche tanto velatamente si ipotizza che, se la crisi deflazionistica dovesse perdurare, la banca sarebbe pronta a comprare anche azioni in Borsa. La sfida evolutiva continua, ed è una notizia rassicurante, perché significa che tutte le prossime crisi a cui assisteremo – eventi fisiologici, lo ricordiamo – saranno un’occasione per aumentare la presenza in scena e non certo per scappare.


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