19 gennaio 2020

Paul Volcker e il drago dell’inflazione

Pubblicato in: Economia & Mercati

Definita da alcuni il “drago”, probabilmente perché, nell’immaginario collettivo degli anni Settanta, niente più dell’animale mitologico sputafuoco era in grado di rendere l’idea della sua capacità di bruciare il potere d’acquisto dei consumatori, l'inflazione era determinata dallo strapotere sindacale che pretendeva salari sempre più alti dei lavoratori, proprio per mantenere il potere d’acquisto a debita distanza dai prezzi dei beni al consumo crescenti, in una spirale verso l’alto che sembrava non trovare mai un limite. 

Derivava dalle minacce del petrolio, con le domeniche a piedi causate dalla crisi petrolifera del 1973, periodo in cui i Paesi del Medio Oriente fecero impennare i prezzi in risposta al sostegno occidentale a Israele; impennata che portò i prezzi al consumo fuori controllo costringendo i governi a rimedi drastici per limitare i danni all’economia.

Proveniva dai ricchi Bot, fonte di felicità dei piccoli risparmiatori che parcheggiavano i risparmi in banca, prestandoli allo Stato in cambio di un ricco rendimento. Un investimento “sicuro”, si diceva, e apparentemente ricco. Peccato che non venissero considerati i tanti aspetti negativi. È vero che il rendimento era molto alto, a doppia cifra, ma è altrettanto vero che il “peso lordo” di quel guadagno era quasi totalmente dovuto dalla “tara” dell’inflazione, alla fine dei conti il “peso netto” risultava un minimo guadagno se non l’azzeramento. Un altro aspetto negativo era proprio nell’alto rendimento, che se da un lato, apparentemente, arricchiva e tranquillizzava i sonni del piccolo risparmiatore, dall’altro impoveriva lo Stato che proprio a causa di quei rendimenti aveva un interesse sul debito molto pesante, accrescendolo sensibilmente. Un’eredità che quegli anni ci hanno lasciato. Investendo massicciamente sui titoli di stato per assicurarsi un rendimento “ricco” che poi sarebbe pesato sulla collettività, ha significato anche togliere risorse agli investimenti produttivi, pubblici e privati. I tassi bassi di oggi, se da un lato hanno cancellato l’investimento “sicuro” dall’altro fortunatamente costringono alla ricerca di buoni investimenti anche per la collettività. Non da ultimo, i tassi alti riducevano la possibilità di acquisto della casa di proprietà, un mutuo con un tasso a doppia cifra era un bel salasso per moltissime famiglie.

Sembrano scenari remoti, eppure solo quarant’anni fa il mondo era questo, e se oggi lo vediamo cambiato, se oggi non abbiamo più la pressione sui prezzi, se non esiste più quel drago sputafuoco che minaccia di bruciare il nostro potere d’acquisto, lo dobbiamo a Paul Volcker, l’uomo simbolo della sconfitta dell’inflazione.

“No pain no gain”, non esiste guadagno senza dolore, era il motto di Paul Volcker. Sacrificare il breve termine, per un benessere nel lungo termine. La formula tutt’ora considerata vincente per gli investimenti, era la filosofia che quarant’anni fa quest’uomo mise in pratica per spezzare la schiena all’inflazione. Governatore della Fed dal 1979 al 1987, se n’è andato in una domenica di dicembre all’età di 92 anni. Sconosciuto ai giovani, dimenticato da molti, è stato uno dei più grandi banchieri centrali che la storia abbia mai conosciuto, sicuramente il più stimato, e per molti motivi: innanzitutto per l’onestà intellettuale, ha sempre preteso la separazione dei poteri e delle competenze, alle Banche Centrali spetta la gestione della moneta, alla politica governare.  Un altro motivo, storico ed eclatante, è l’attuale ciclo del mercato obbligazionario, perché la sconfitta dell’inflazione ha determinato una discesa dei tassi d’interesse che si protrae da più di 30 anni e che ha fatto la felicità di tutti i risparmiatori che negli anni Ottanta hanno investito in titoli di stato a lungo termine, risparmiatori che non solo hanno beneficiato del rendimento di quei tempi a doppia cifra, ma hanno visto il prezzo delle obbligazioni salire vertiginosamente accumulando un guadagno in conto capitale più che consistente. Ma Volcker è stato anche molto altro, un banchiere caparbio e coraggioso, un solo esempio per descriverlo e capire la portata storica: nell’agosto del 1979, quando Jimmy Carter lo nominò alla presidenza della Fed, gli Usa erano piegati da un’inflazione che viaggiava al 12%. La prima mossa di Volcker fu quella di portare il tasso sui fondi federali al 15,90% in prossimità delle elezioni presidenziali del novembre 1980 e successivamente al picco storico del 19,1% nel giugno del 1981.

Alzare i tassi, e alzarli così violentemente, è una cura shock, è l’equivalente di una stretta di cinghia, un digiuno a pane e acqua, anzi, senza pane, che poteva far stramazzare il corpaccione economico americano. Infatti, gli Usa finirono in recessione per ben due volte, nel 1980 e nel 1981/82, la prima delle quali costò la rielezione a Carter, e la seconda la sconfitta nel mid term di Reagan. Erano altri tempi, o forse altri uomini al potere, gli uomini del “no pain, no gain”. Nel settembre del 1981 il Tbond a 10y raggiunse il picco di rendimento del 15,8%, mentre nell’agosto del 1982 il Dow Jones cadde sul minimo di 776 punti. Erano le basi del grande rally ciclico che tutt’ora viviamo, fu Paul Volcker, con le sue mani, a tracciare il solco. Nessuna remora per la politica e nemmeno per la sensibilità del mercato, contava solo il risultato finale. Nel dicembre del 1982 l’inflazione era già sotto il 4%, un sollievo allora, un sogno per questi tempi in cui di crescita dei prezzi al consumo abbiamo vitale bisogno.

L’inflazione non è né buona e né cattiva, ma serve, è utile all’economia, sono gli eccessi a essere nocivi. L’inflazione possiamo immaginarla come il sale, la cui assenza rende insipida la pietanza e ci priva del sodio, elemento molto importante per il corpo umano sia a livello cellulare, che neurologico e muscolare, se invece è presente in eccesso rischia di provocare l’ipertensione. È la giusta dose che porta i giusti benefici al fisico e al palato, così la giusta dose di inflazione, quantificata nei livelli stimati dalle banche centrali, porta benefici alla corretta crescita dell’economia e al tempo stesso stimola, senza affaticare, il potere d’acquisto dei singoli consumatori. Erano anni molto difficili quelli dell’inflazione rampante, le Banche Centrali non erano i santuari che conosciamo oggi, con i banchieri che assomigliano sempre più a delle figure pop, ma erano dei luoghi simili ai monasteri, con i governatori silenziosi come monaci, che lavoravano lungi dai grandi riflettori e non sempre erano amati, anzi in quegli anni le contestazioni erano una consuetudine, soprattutto negli anni della recessione. 

Ma Volcker non era per nulla intimorito, tanto che diede pieno sostegno al Presidente Reagan quando quest’ultimo decise di inviare l’esercito per mettere fine agli scioperi dei lavoratori che stavano paralizzando il paese esacerbando la recessione. Ma come Volcker non si intimoriva davanti alla contestazione pubblica, al tempo stesso non cedeva al volere del potere governativo. Numerosi aneddoti sono raccolti nel suo libro di memorie. Per esempio quello accaduto nel 1984, quando James Baker III, capo dello staff di Reagan, lo convocò e in presenza del presidente Reagan, gli ordinò di non alzare i tassi nell’imminenza delle elezioni presidenziali, Volcker ribadì che non era sua intenzione farlo, ma che in caso contrario, non si sarebbe fatto imporre nulla.

Oggi vediamo stili e comportamenti diversi, ma i banchieri centrali hanno sempre lo stesso obiettivo comune, cioè l’equilibrio dei prezzi, se l’inflazione è alta devono cercare di abbassarla, se è bassa devono trovare il modo di sostenerla.

Come Volcker riuscì nel suo intento, riducendo la liquidità in circolazione (aumento dei tassi d’interesse), così oggi, nello scenario opposto, si cerca di fare il contrario, inondare di liquidità il sistema.

Sono i contesti e le variabili a essere diversi.

Quarant’anni fa l’economia non era globalizzata, e i prezzi erano influenzati dalla pressione sui salari e dalle materie prime. L’unica variabile che resiste nel tempo sono i salari, e cioè il costo del lavoro. Ma oggi l’offerta di lavoro, grazie alla globalizzazione e all’entrata sul mercato di due miliardi di nuovi potenziali consumatori, è in abbondanza, e per la legge dell’economia, troppa offerta si traduce in un basso prezzo, ed è per questo che i salari rimangono confinati su un tasso di crescita al minimo storico. E poi ci sono le materie prime, con il petrolio che rimane stabile su prezzi molto bassi, anche qui grazie all’ampia offerta ottenuta con nuove tecniche di estrazione, non è più soggetto alle antiche pratiche ricattatorie di impennata dei prezzi. E non ultime ovviamente ci sono le nuove tecnologie che stanno rivoluzionando l’economia, riducendo costi e prezzi, una fase di passaggio che inizialmente porterà vantaggi solo a pochi, ma che con il passare del tempo è facilmente immaginabile, coinvolgeranno tutti gli strati sociali.

Cosa fare dunque se non prendere tempo, affinché tutte le novità trovino il giusto collocamento nello scacchiere dell’economia e l’economia stessa non trovi la giusta formula per una ripresa corale. Magari con il sostegno della spesa pubblica, cioè il passaggio di testimone da quello che fino a oggi è stato il reggitore del mercato, la politica monetaria, a quello che dovrà dare l’impulso decisivo di spesa, la politica di bilancio.

Nel frattempo, si continua a stampare, per mantenere l’economia lontana dalla zona di pericolo e comprando tempo, in attesa che domanda e offerta tornino a stimolare i prezzi.  Creare moneta (con il QE) è l’unico strumento, il più efficace, per contrastare la deflazione, e se qualche economista dovesse ribattere che di moneta in questi anni ne è stata creata abbastanza, si potrebbe controbattere dicendo che la stampa è illimitata e visti i risultati, ancora non è abbastanza.

Come dicevamo sopra, le manovre e le coraggiose decisioni di Paul Volcker sconfissero l’inflazione, ma prima di vedere il sereno ci furono parecchie burrasche, come per esempio la perdita di milioni di posti di lavoro solo negli Usa e la chiusura di molte fabbriche: un colpo fortissimo per l’industria americana. Negli anni successivi, dopo i sacrifici dell’“inverno economico”, arrivarono i germogli verdi della primavera con la risalita del Pil e il recupero dell’occupazione ma, nonostante il ritorno dell’espansione, ci furono attività che non riuscirono più a riprendersi.

Come per esempio la famosa “Rust Belt”, la cintura di ruggine, chiamata così per il colore delle fabbriche abbandonate, attività chiuse durante la recessione e mai più riaperte. Quella regione non si riprese mai più, ma è anche vero che ce ne furono altre che si rilanciarono ed altre che si rinnovarono, e in pochi anni la crescita di economia e borsa non solo ritornò ai massimi precedenti, ma in breve tempo riuscì a superarli grazie a nuovi cicli espansionistici.

Le alterne vicende accadute negli anni Ottanta alla Rust Belt e all’economia USA possiamo considerarle una metafora che ci aiuta a comprendere qual è la formula migliore del buon investimento che al tempo stesso porta rendimento e riduce il rischio: la diversificazione.

I momenti di crisi, le recessioni, le cadute di borsa ci saranno sempre, e in quelle fasi ci saranno aziende, anche storiche, anche quelle che si pensavano solidissime, che arriveranno a fine vita, ma ce ne saranno altre che in quei momenti critici troveranno la forza per ristrutturarsi e rilanciarsi nelle successive fasi di espansione, l’unica certezza è la solidità dell’economia Usa che dopo ogni crisi riesce a rilanciarsi.

Usando uno slogan potremmo dire che le “Rust Belt” vanno e vengono, mentre gli USA restano, o forse più correttamente è meglio dire, l’economia mondiale resta. Traslando questo esempio agli investimenti potremmo dire che nel mare magno di aziende, grandi, piccole o multinazionali, le singole società vanno e vengono, gli indici di borsa restano. Ed è per questo che, per evitare spiacevoli sorprese, soprattutto nel settore azionario più ricco di opportunità ma più rischioso, è meglio scegliere soluzioni che hanno come sottostante gli indici globali, o addirittura sull’indice che raggruppa tutte le più grandi aziende del mondo, perché diluiscono i pericoli e al tempo stesso ricalcano i numeri della crescita. Perché essi stessi, di quella crescita, sono il motore.

 


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