L’importanza di essere Fed

L’importanza di essere Fed

Pubblicato il 08 ottobre 2025 in Economia & Mercati

Non è facile, di questi tempi, essere il numero uno della Fed. E lo sa bene Jerome Powell. Se un tempo le abilità del banchiere centrale stavano tutte nella sensibilità nel muovere i tassi di interesse, oggi le variabili sono più numerose, ma lo sono anche gli strumenti a disposizione. Il punto è riuscire a miscelarli nel modo giusto.

Ripercorrendo la storia dei banchieri della Fed, la mente corre ad Alan Greenspan, soprannominato “Il Maestro”, a capo della banca centrale per un intero decennio e noto per le abilità dimostrate nel gestire diverse crisi nella finanza statunitense.


“Si stava meglio quando si stava peggio”

Per esempio, quando nell’ottobre del 1998, nel bel mezzo di una pioggia di vendite sui mercati USA, Greenspan incontrò a New York tutti i CEO delle più importanti banche statunitensi (JP Morgan, Lehman Brothers, Citigroup, solo per citarne alcune) facilitando un accordo tra gli istituti per il salvataggio del fondo Long-Term Capital Management (noto come il fondo dei Premi Nobel dell’economia). La crisi di tale fondo stava trascinando nell’abisso prima l’economia russa e poi, per l’effetto domino della globalizzazione, l’economia mondiale.

Greenspan a quel tempo era visto come un eroe indiscusso. “Se la congiuntura non invertirà di segno” – scriveva in quegli anni Il Manifesto – “Greenspan alla fine del suo mandato stabilirà un altro record: la più lunga fase di espansione dell’economia statunitense, caratterizzata da un basso tasso di disoccupazione”. E a Wall Street cominciò a circolare la leggenda della “Greenspan Put”, una sorta di cura come panacea per tutti i mali e le crisi.


Liquidità e tassi come panacea a tutti i mali

Alan Greenspan aveva grandi capacità di gestione e di precisione, alzava e abbassava i tassi ricreando sempre quell’equilibrio che tanto piace alle Borse. Inoltre, godeva di enorme credibilità, guadagnata sul campo fin dai suoi esordi. Il 19 ottobre del 1987, un lunedì poi ribattezzato “Black Monday”, quando il Dow Jones perse il 23% in un giorno solo, Greenspan dichiarò che la banca centrale sarebbe stata pronta a intervenire per fornire liquidità a sostegno del sistema economico e finanziario. Un messaggio chiaro e preciso che con quella parola, “liquidità”, riuscì a infondere fiducia negli investitori rimettendo le Borse in careggiata. Liquidità unita al sapiente dosaggio dei tassi.


Certo, oggi tutto è più complesso

Jerome Powell, l’attuale presidente della Fed, si trova ad affrontare una matassa intricata che richiede ampia riflessione prima di qualsiasi mossa. I mercati oggi sono un labirinto disseminato di insidie e di nemici, e non basta più dosare la leva dei tassi, alzando o abbassando a seconda delle situazioni: oggi c’è la variabile impazzita della geopolitica, c’è la spada di Damocle dei dazi, c’è l’economia camaleontica ostaggio della grande rivoluzione dell’AI, c’è l’inflazione resuscitata e, come se non bastasse, la Fed nutre anche in seno la serpe della politica, in un’ingerenza che rischia di far traballare agli occhi dei mercati sia l’indipendenza, sia la credibilità dell’istituto.

William McChesney Martin, presidente della Fed dal 1951 al 1970 (longevo tanto quanto Alan Greenspan), diceva: “Il ruolo delle autorità monetarie è quello di portare via il carrello dei liquori quando il party comincia a scaldarsi troppo”. Fuor di metafora, il carrello dei liquori è rappresentato dalla liquidità. Dopo l’ultimo taglio dei tassi dello 0,25%, Powell ha dichiarato uno spostamento del focus dal rischio inflazione al rischio debolezza occupazionale. Quindi ci sarà una maggiore propensione a tagliare i tassi, ma con prudenza, perché abbassarli troppo velocemente rischia di riaccendere il problema inflazione.


Da maestro a funambolo

In questo scenario, il compito di Powell somiglia più a un delicato esercizio di equilibrio che a una semplice decisione tecnica:

  • da un lato, la necessità di sostenere crescita e occupazione;
  • dall’altro, il dovere di non riaccendere i focolai inflazionistici.

Se Greenspan poteva ancora incarnare l’immagine del “Maestro” capace di domare i mercati con una parola o con un taglio mirato, oggi il presidente della Fed è piuttosto un funambolo, costretto a camminare su un filo sempre più sottile, sospeso tra economia, politica e finanza globale. La vera sfida sarà capire se riuscirà a mantenere intatta quella credibilità che, per una banca centrale, resta l’arma più potente di tutte.




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