30 novembre 2017

Tutto quello che il rumore non dice

Pubblicato in: Economia & Mercati

A dar retta alla narrazione che la stampa nazionale ed estera sta sviluppando sull’Italia, saremmo un Paese privo di risorse naturali, di grandi capitalisti e di aziende multinazionali, quei colossi che altrove fungono da arieti in grado di sfondare ogni difesa. Dunque veniamo descritti come un piccolo Paese che ha imboccato da anni il sentiero del declino, un percorso verso il basso accentuato prima dalla crisi finanziaria esplosa negli anni 2008-2009, e aggravato poi da una seconda crisi, più blanda ma proseguita per un arco di tempo spaventosamente lungo. Un interminabile inverno nel corso del quale si è compiuta una vera e propria selezione della specie. Un lungo lasso di tempo che ha fiaccato le imprese come succederebbe a un sub che può anche andare in profondità ma dopo poco deve risalire a prender fiato, mentre pur trovandosi immerso in pochi centimetri d'acqua rischia di soffocare se lo trattiene a lungo. Per molti opinionisti la conclusione è senza speranza. Ma è davvero così? Non abbiamo forse trascurato quello spirito che quando siamo messi all'angolo interviene e ci porta a trovare una soluzione? La soluzione spesso coincide con l’innovazione, cioè con un percorso che non avevamo mai seguito prima, con una strategia a cui non avevamo pensato. L'innovazione nel caso dell’Italia coincide con il suo “saper fare”, i suoi talenti, le migliaia di piccole e medie imprese che creano ricchezza: è questa la vera grande opportunità a nostra disposizione. Gli strumenti per trasformare la potenzialità in realtà sono i Piani Individuali di Risparmio introdotti dal Governo proprio quest’anno, che mettono tutti i soggetti nella condizione di poter ottenere benefici: lo Stato, i risparmiatori, le imprese. Un progetto iniziato prudentemente nei primi mesi dell'anno ma che oggi sta progredendo con una velocità che supera ogni più ottimistica aspettativa. Qualche dato: quando sono stati presentati, le previsioni di raccolta del Governo non andavano oltre i 16- 18 miliardi in 5 anni, ma in soli nove mesi sono stati superati abbondantemente i 7,5 (due dei quali sono stati raccolti da Banca Mediolanum) spingendo lo Stato a rivedere le stime: oggi si parla di circa 70 miliardi in 5 anni. Questi strumenti sono utili alle imprese per le quali costituiscono un canale finanziario che dà loro il carburante per crescere. Maggiori sono gli utili delle aziende maggiore è il gettito fiscale, senza scordare che un maggior volume di entrate potrebbe portare in futuro alla riduzione delle tasse, dunque sono utili anche allo Stato. Investendo nei PIR i risparmiatori possono fruire della detassazione sul capital gain che guadagneranno dalla crescita delle imprese che hanno finanziato. Una crescita sia economica sia finanziaria che dovrebbe sostenere i valori di Borsa.


MERCATO AZIONARIO
Negli ultimi anni, i mercati sono stati colti di sorpresa in più occasioni, quali sono stati gli eventi non previsti che più sono rimasti nella mente degli investitori? Senza andare molto indietro nel tempo, partiamo da fine giugno 2016, quando contro ogni previsione, la maggioranza risicata degli inglesi decise di votare al referendum il “NO” come scelta di non rimanere più all’interno della comunità europea. Fu una scelta di cui i media parlarono molto, coniando addirittura la definizione di “Brexit” e definendola un’uscita storica, per molti drammatica, addirittura nefasta a livello economico e sociale, immediatamente etichettata come un nuovo cigno nero, l’animale simbolo degli eventi catastrofici imprevisti. Accomunata a quanto accaduto nel settembre del 2008 con il fallimento di Lehman Brothers. Poi c’è stata l’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti, un avvenimento anche questo preceduto da previsioni opposte e per questo scatenante sorpresa, paura, panico, scelte avventate e spesso scriteriate. L’investitore è caduto nuovamente in errore. Allarmi e (finte) paure che si sono moltiplicate anche nel 2017 e hanno toccato tutti gli ambiti più sensibili. La politica, per esempio, con le numerose elezioni europee: Olanda, Francia e Germania i paesi coinvolti, in cui si confrontavano “Europeisti” contro “Euroscettici”. Ad ogni elezione montava la paura contro l’Europa e puntualmente ogni volta il pessimismo è stato smentito dall’andamento del mercato che ha puntato sulla stabilità e sulla crescita. Le stesse dinamiche si sono riscontrate anche nell’ambito economico: abbiamo sentito ripetere che l’economia Usa rischiava di cadere in recessione, che l’economia europea poggiava su fragili gambe, quando invece a fine anno, i dati confermano che il ciclo economico è robusto, sia in Cina dove periodicamente si paventa la “bolla speculativa”, sia negli Usa e soprattutto in Europa dove gli indicatori anticipatori (manifatturiero e servizi) sono su livelli massimi, in particolare quello manifatturiero è sul livello più elevato degli ultimi 211 mesi. Il copione allarmistico si è ripetuto in tema di tassi d’interesse perché, mentre in economia c’era chi paventava la caduta in nuove recessioni, in materia finanziaria al contrario si creava un clima di apprensione avvisando che un’economia così surriscaldata sarebbe stata colpita da un’accelerazione sul rialzo dei tassi d’interesse, che conseguentemente, spaventandola, avrebbe spinto le borse al ribasso. Un periodo dunque all’apparenza vissuto nel timore di qualcosa di grave all’orizzonte, ma che nel risultato finale segna borse in crescita a due cifre. Dall’elezione di Trump a oggi, il Nasdaq è cresciuto del 30% e del 60% dalla Brexit. Percentuali che non si vedevano più dai gloriosi fine anni novanta. A Wall Street si dice che il toro (animale simbolo del rialzo) si arrampica sempre sul muro della paura. Una metafora che ben rappresenta l’anno che si sta chiudendo, una paura lanciata da continui allarmi, poi rivelatisi falsi e che hanno avuto l’unico risultato di fare da molla, spingendo le borse su livelli sempre più elevati. I mercati azionari, anche dopo quest’annata che si è rivelata fertile, con generosi raccolti e altrettante occasioni, rimangono contraddistinti per essere la classe d’investimento di maggior rischio e la più volatile, ma che se ben approcciata, con l’appoggio di un operatore professionista e con un’adeguata strategia di diversificazione rivela la sua reale natura: lo strumento che tutt’ora offre il più alto e generoso rendimento per l’investitore.


MERCATO OBBLIGAZIONARIO
Potrà sembrare banale ma in tema obbligazionario nulla sembra più appropriato se non citare il celeberrimo monologo dell’androide Roy di Blade Runner mirabilmente interpretato da Rutger Hauer nella pellicola di Ridley Scott: “ho visto cose che voi umani non potreste nemmeno immaginarvi”. Abbiamo visto i “matusalem bond”, i titoli di stato centenari, emessi da Paesi come Austria, Belgio e Irlanda, che per un rendimento di poco superiore all’attuale tasso d’inflazione americana, mettono il capitale investito a rischio di violente fluttuazioni nel caso di improvvise crisi o di improvvisi inasprimenti sui tassi d’interesse. Eppure, queste obbligazioni centenarie hanno fatto il tutto esaurito. Ma quello che era ancor più impensabile è che hanno fatto il tutto esaurito anche i titoli di stato di egual durata emessi dall’Argentina, uno dei paesi che a livello finanziario si è rivelato essere tra i più inaffidabili al mondo, in 200 anni è fallito ben 8 volte. Ma questo è ancora niente di fronte al “Millennial Bond”, l’obbligazione millenaria, recentemente emessa da una società danese al “misero” tasso di rendimento del 2,5%. Ovviamente, anche in questo caso, obbligazioni andate a ruba. Una riflessione su questa folle corsa verso i bond perpetui è stimolata dall’analisi di Joachim Fels (managing director presso la sede di Newport Beach di Pimco) che rifacendosi alle analisi di Paul Schmelzing, storico dei sistemi finanziari internazionali di Harvard, stima che la traiettoria dell’inflazione sia indirizzata lungo un percorso inclinato verso una cronica debolezza, non solo verso una semplice negatività, ma verso una negatività accentuata, tanto che le proiezioni stimano nel prossimo millennio un tasso negativo del 15-16%. Tali cifre giustificherebbero un investimento nelle obbligazioni a scadenza mille anni al tasso del 2,5%. Possibile che il destino dell’inflazione sia da accomunarsi a quello dei dinosauri e cioè una definitiva scomparsa dal pianeta dell’economia? Probabilmente, anche se in senso inverso, tesi simili venivano costruite 40 anni fa, quando l’inflazione, allora a 2 cifre, sembrava non avere freno, una galoppata dei prezzi senza fine dove nessuno si azzardava a comprare obbligazioni a lungo termine con prezzi bassissimi e un rendimento che oggi farebbe stropicciare gli occhi per quanto allettante in confronto alla miseria che si trova oggi sul mercato. Eppure, comprare allora si sarebbe rivelata nel tempo una scelta dapprima coraggiosa e successivamente remunerativa e molto lungimirante. Al contrario oggi, una mossa saggia sembrerebbe quella di temporeggiare per non mettere a rischio il capitale. Esistono strumenti come i fondi obbligazionari che grazie a un’imponente opera di diversificazione, non solo permettono di diluire il rischio ma nel contempo offrono un flusso cedolare costante da poter reinvestire, nell’attesa che il mercato obbligazionario si ripulisca da questi eccessi e torni a essere un mercato da rendimenti allettanti, senza il rischio di incorrere in perdite in conto capitale.


AVVERTENZA LEGALE: questo è un foglio di informazione aziendale con finalità promozionali che riflette le analisi, effettuate da Banca Mediolanum, sulla base dell’attuale andamento dei mercati finanziari il cui contenuto non rappresenta una forma di consulenza nè un suggerimento per gli investimenti.
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