03 febbraio 2019

Powell put

Pubblicato in: Vademecum

Nata nel 2009, dopo una galoppata che il 17 dicembre 2017 l’ha portata al record di 19.535,40 dollari, Bitcoin, madre di tutte le valute digitali, sul finire di gennaio 2019 ha perso il 74% del suo valore. Un crollo che, oltre a riguardare anche tutte le “sorelle”, secondo gli esperti si spiega con la perdita di interesse degli speculatori, a sua volta dovuta al calo dei volumi di scambio di questo mercato.


Alcuni ritengono che questo potrebbe segnare la morte della criptovaluta più famosa, mentre altri ricordano che l’innovazione digitale non ha mai avuto inizi facili e citano in proposito le perdite che Amazon, pioniere dell’e-commerce, ha registrato prima di arrivare al profitto. Il Bitcoin è un bene controverso e ambizioso, per alcuni addirittura un potenziale candidato a sostituire l’oro come bene rifugio.


Certo è che non possiamo sapere cosa succederà. In passato, ogni movimento speculare a quanto accaduto recentemente al Bitcoin ha seguito fedelmente lo stesso copione: all’inizio la novità viene acquistata da pochi, poi il prezzo cresce e l’investimento diventa irresistibilmente di massa, comprato da tutti. Una volta raggiunte quotazioni irrealistiche, la bolla scoppia.


È stato così anche nel 2000, quando esplose la “bolla di Internet” e il Nasdaq crollò. Tuttavia, oggi, a distanza di solo qualche anno, il Nasdaq, pur rivoluzionato nel suo paniere, è uno dei principali indici di Borsa al mondo. Ennesima dimostrazione che l’unica scelta vincente, negli investimenti, è la diversificazione.



Da Greenspan a Powell, sostegno a Wall Street
“Sarebbe molto sorprendente vedere il mercato stabilizzarsi dopo questa discesa e poi riprendere quota. Nemmeno eventuali rimbalzi dovrebbero generare troppe illusioni”. A dirlo è stato Alan Greenspan – 92 anni d’età, 18 dei quali passati a capo della Federal Reserve – in un’intervista rilasciata il 18 dicembre alla CNBC.


In effetti, il 2018 è stato un anno avaro per tutte le categorie di investimento, con un bilancio sotto zero e un mese di dicembre tutt’altro che a lieto fine. Erano 10 anni che non si vedeva una fine d’anno così difficile. E prima del 2008 si fa fatica a ricordare una fine d’anno così ostile: bisogna risalire al 2000, dopo lo sboom della “bolla Internet”, con l’incertezza sull’esito elettorale tra George W. Bush e Al Gore, e al 2001, con lo scoppio della crisi in Argentina e dello scandalo Enron.


Fasi critiche che Greenspan conosce molto bene, avendole vissute e combattute in prima persona da numero uno della Fed. Ciò a cui teneva di più era l’espansione, come è nel DNA della Fed che, a differenza della BCE, punta sia al contenimento dei prezzi al consumo sia al sostentamento della crescita. Proprio nelle occasioni critiche si consolidò la leggenda della “Greenspan Put”, una rete di protezione sotto Wall Street, pronta all’uso in caso di cali troppo pesanti (e prima che fosse troppo tardi).


Ed è proprio questo il percorso che – malgrado il pessimismo di Greenspan – sta seguendo anche Jerome Powell. Il presidente nominato da Donald Trump prosegue nel rispetto della tradizione: quindi, sempre favorevole all’espansione. Se poi la crescita diventa eccessiva e scalpita, tira le redini aumentando i tassi di interesse. Se invece dà segnali di stanchezza, fa balenare all’orizzonte una possibile sospensione degli aumenti.


Dunque, se è vero che l’investimento azionario è per sua natura il più rischioso, quando la Fed – come in questo caso – è dalla parte dell’investitore, esso diventa l’investimento con le maggiori opportunità di rendimento. Magari un giorno, questa sarà ricordata come l’epoca della “Powell put”.



Ci vorrà molto pazienza
“Pazienza, pazienza, pazienza”, ha detto Powell. Ci ha tenuto a ripeterlo per ben tre volte e a scandirlo in modo che il messaggio fosse chiaro a tutti. Lo ha fatto nell’ultima conferenza stampa della Fed, che è stata una sorta di “atto riparatorio” dopo la riunione di metà dicembre, quando all’azione “forzata” di aumento dei tassi d’interesse è seguita una reazione di disapprovazione da parte di Wall Street e, a ruota, di tutte le Borse del mondo.


Un clima peraltro già esacerbato dalla prova di forza tra la Fed e la Casa Bianca. Ma ai mercati l’incertezza non piace. Non amano vedere che la Fed venga messa in discussione e privata di credibilità, e non amano nemmeno queste intromissioni della politica. Ora che le autorità sono rientrate nei ranghi, i mercati ringraziano. L’incertezza che permane è nello stato dell’economia, una situazione che Powell ha colto perfettamente.


E non ci sono solo gli Stati Uniti. C’è anche la Germania, locomotiva d’Europa, che in più di un indicatore lascia trapelare il rischio di frenata. E poi c’è la Cina, i cui dati appaiono pure molto in frenata rispetto alla velocità di crociera degli anni precedenti, e con l’incognita dei dazi ancora da risolvere.


È pensabile che il percorso di aumento dei tassi d’interesse possa procedere con totale indifferenza rispetto a tutto ciò? Un indizio ce lo fornisce il presidente della BCE Mario Draghi: scongiurando l’ipotesi peggiore della recessione, ha voluto ribadire che, in caso di necessità, la cassetta degli attrezzi è sempre pronta all’uso.


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