Competenza e fiducia al primo posto nella scelta del consulente
Cari consulenti, voi per gli investitori italiani siete il top. Un investitore su due, infatti, fa ricorso a una sola fonte informativa per prendere decisioni, preferendo di gran lunga il supporto di un esperto – consulente finanziario o funzionario della banca – “alla consultazione in autonomia di documenti informativi sui prodotti come il prospetto”.
A rivelarlo è la CONSOB nel suo quinto rapporto sulle scelte finanziarie delle famiglie italiane, uscito a novembre.
Questo per quanto riguarda le fonti informative consultate. Se andiamo a guardare quello che CONSOB chiama “stile decisionale”, il rapporto ci dice che “nelle scelte di investimento il 20% degli individui si affida a un consulente finanziario o a un gestore”, che consulta anche in fase di monitoraggio del proprio portafoglio. La propensione a chiedere consulenza va di pari passo con fattori come l’età, la ricchezza e la fiducia negli intermediari finanziari. Ma c’è ancora un 40% di investitori che ricorre alla cosiddetta “consulenza informale”, ovvero ai consigli di amici e parenti, i quali sono talvolta attivi nel settore finanziario. E c’è un altro 40% che invece sceglie di decidere in autonomia. Insomma, permangono sensibili margini di miglioramento.
La relazione con il consulente? Di lungo periodo
In un contesto in cui più del 50% degli investitori non sa identificare i tratti distintivi del servizio di consulenza in materia di investimenti, la scelta del consulente è guidata principalmente dalle competenze del professionista. Seguono la fiducia che riesce a ispirare e la segnalazione da parte di una persona o istituzione ritenuta affidabile, vale a dire un parente, un amico o l’istituto bancario di riferimento. Quella con il consulente si distingue come una relazione a medio-lungo termine: il 51% degli investitori assistiti non ha mai cambiato professionista, mentre chi si è rivolto altrove lo ha fatto nel 31% dei casi perché l’esperto non era più disponibile; solo il 18% ha optato per un consulente diverso perché insoddisfatto. Ma quali informazioni è importante fornire al consulente, secondo gli italiani? Premesso che lo scambio informativo è riconosciuto come importante, diverse sono le priorità individuate: oltre i due terzi dei clienti assistiti pone l’accento sulla capacità di rischio, i rendimenti attesi, il fabbisogno di liquidità e l’orizzonte temporale di investimento; gli obiettivi di vita sono segnalati da poco più del 60%; seguono conoscenza finanziaria (50%) ed esperienza di investimento (44%). Solo il 30% degli investitori dichiara di comunicare al consulente variazioni di rilievo della propria situazione personale.
Remunerazione, questa sconosciuta (per ora)
Quando riceve una raccomandazione, nel 69% dei casi l’investitore segue il consiglio ricevuto, mentre c’è un 4% che preferisce chiedere una seconda opinione. Tuttavia, soltanto il 17% sarebbe disposto a seguire un consiglio che non ha capito senza prima documentarsi. Per quanto riguarda gli incontri e i contatti con il consulente, nel suo rapporto CONSOB segnala che “sono saltuari o assenti nel 26% dei casi, mentre nel 70% circa ricorrono con frequenza annuale su iniziativa del cliente o del consulente”. E in caso di turbolenze sui mercati finanziari? Un quarto degli investitori assistiti “cerca sempre conforto nel consulente e altrettanti vengono contattati dal professionista; nel 30% dei casi, infine, gli intervistati dichiarano di essere raggiunti tramite e-mail o newsletter”. Tutto questo lavoro, con annessa opera di assistenza e supporto, come viene pagato? Non sa, non risponde: la remunerazione della consulenza, infatti, “rimane un elemento poco considerato”. Per due motivi, che verosimilmente si legano alla ancora scarsa conoscenza del servizio e dei suoi più elementari meccanismi:
• da una parte, “la maggioranza degli individui ritiene che il servizio sia prestato a titolo gratuito”;
• dall’altra, “la disponibilità a pagare è molto bassa anche tra gli investitori assistiti da un esperto”.
I dati del rapporto si riferiscono alla situazione a fine 2018, anno nel quale MiFID II era appena entrata in vigore e non era ancora iniziato l’invio dei rendiconti ex post: chissà che nel 2019, sul punto, non emergano dati diversi.
Come investono (o non investono) gli italiani?
A fine 2018, il 30% delle famiglie italiane dichiara di possedere almeno un’attività finanziaria, rappresentata da fondi comuni e titoli di Stato italiani. Ma al primo posto resta la liquidità, con una sovraesposizione che continua a persistere.
Ciò potrebbe dipendere anche dalla cultura finanziaria delle famiglie italiane, che si conferma assai modesta. Basti pensare che il 21% degli intervistati non conosce alcuna nozione di base o avanzata proposta nell’ambito della rilevazione: niente su inflazione, relazione rischio/rendimento, diversificazione, caratteristiche dei mutui, interesse composto, men che mai qualcosa di più articolato sui titoli obbligazionari. Basso anche il livello di numeracy, come si evince dal fatto che il 54% del campione non sa eseguire un semplice calcolo percentuale. Quanto ai prodotti che, per grado di diffusione o copertura mediatica, possono considerarsi fra i più noti al pubblico indistinto – dunque conto corrente, azioni, obbligazioni, fondi comuni, Bitcoin – oltre il 30% del campione non ne conosce neanche uno. Ovviamente, ne risente la risk literacy, ossia la conoscenza dei vari tipi di rischio: perdita del capitale, volatilità, rischio inflazione e rischio di liquidità. Il guaio, come peraltro era emerso lo scorso anno , è che gli italiani tendono a sopravvalutare il proprio bagaglio di conoscenze e competenze. E ciò rende ancora più rilevante il ruolo del consulente finanziario nell’evitare al cliente di prendere abbagli aiutandolo, al contempo, ad acquisire qualche nozione in più per orientarsi. E difendersi.