09 luglio 2018

L'Italia come Wimbledon

Pubblicato in: Economia & Mercati

Nel 2006 le prime cinque società americane per capitalizzazione erano Exxon, General Electric, Microsoft, Citigroup e Bank of America. L’anno scorso, nel 2017, la situazione appariva radicalmente diversa: nella top 5 troneggiavano Apple, Google, Microsoft, Amazon e Facebook. Questo la dice lunga sulla rivoluzione che si è consumata nell’ultimo decennio. Non solo: General Electric, il colosso dell’industria statunitense e la più antica società quotata sul Dow Jones, emblema della stessa industria americana, dopo 110 anni ha abbandonato l’indice. Nel 2000, poco prima dello scoppio della bolla Internet, toccò l’apice con un prezzo di Borsa di poco superiore ai 50 dollari: quell’anno il Dow Jones era attorno ai 10 mila punti. Oggi il titolo quota intorno ai 13 dollari, a fronte di un Dow Jones che vale 24 mila punti. Perché?


C’è chi sale e chi scende

Perché mentre l’economia, sia pure tra recessioni ed espansioni, cresce e si fortifica anche in virtù di tali processi di trasformazione, le singole aziende possono non farcela, magari perché i loro prodotti diventano obsoleti ed escono dal flusso dei consumi (intermedi o finali). La comparazione fra le società leader negli USA a distanza di 10 anni appena ci dà tante informazioni. Sicuramente, ci dice che il paradigma del cambiamento dei nostri anni è basato sulle tecnologie, verso le quali sta convergendo anche il grosso del capitale. Ma ci dice anche altro: e cioè che la diversificazione resta la chiave per investire minimizzando il rischio. Infatti, investendo in indici e Paesi in tutto il pianeta e con un orizzonte temporale di medio-lungo termine si ha la possibilità di mettersi in scia al ciclo economico, beneficiando della crescita storica.

 

Oltre la Brexit, Trump e il QE

“La Brexit sarà una catastrofe? Scusate, ci siamo sbagliati”. Con queste parole, pronunciate da Andy Haldane, capo economista della Banca d’Inghilterra, la “pseudocrisi” che il voto sfavorevole alla permanenza della Gran Bretagna nell’Unione Europea avrebbe dovuto innescare è stata di fatto archiviata. Oggi lo stesso modus operandi si sta riproponendo con i dazi del presidente USA Donald Trump, salvo che nessuno sa quanto peseranno veramente sull’economia mondiale. Nel caso Brexit, gli allarmi lanciati alla vigilia del referendum furono eccessivi, ma è anche vero che per prevenire spiacevoli contraccolpi il capo della Banca d’Inghilterra Mark Carney agì preventivamente sugli stimoli monetari per rendere la situazione il più addomesticabile possibile. Così sarà con i dazi, e il presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi l’ha ripetuto anche in occasione degli ultimi interventi pubblici. La politica monetaria – e non la politica governativa – è il grande manovratore in questo ciclo economico ancora in fase espansiva e con tassi molto accomodanti, in un ecosistema che come poche altre volte in passato appare assolutamente favorevole alla crescita e alla prosperità del mercato azionario.

 

Lo strumento dei tassi

“Mi piacerebbe dirle a che ora finirà il Quantitative Easing, ma non sono in grado di farlo”. Con queste parole, e facendo ricorso alla sua inconfondibile ironia, Draghi ha risposto alla domanda di un giornalista dopo il meeting di giugno. Un meeting tiepido nei toni e per gli investimenti obbligazionari, e tiepido anche sul fronte dei rendimenti. Il QE terminerà in modo soft a dicembre e i tassi d’interesse non saliranno almeno fino al settembre del 2019. E comunque, chi l’ha detto che i tassi in salita sono un male, soprattutto quando si parte da zero? Tassi in crescita sono sintomo di un’economia in salute. Si pensi alla mongolfiera: quando il mezzo perde quota si gettano le zavorre, quando invece sale troppo occorre aumentare il peso. Nella vita reale magari è un po’ più complicato di così, ma è proprio in questo modo che funziona con i tassi: incrementarne il peso è necessario quando l’economia e quindi l’inflazione minacciano di lievitare troppo. E poi, se i tassi non salissero, alla prossima recessione come si potrà stimolare e tornare in alta quota, se già sono a zero? Il problema si pone per chi è in cerca di rendimenti obbligazionari: fino a quando i tassi non saranno adeguati, gli investitori non potranno rischiare puntando su singole obbligazioni, pena la perdita sul capitale. L’alternativa, per non correre rischi, è l’investimento in fondi obbligazionari: grazie all’estrema diversificazione, da un lato stemperano il rischio di incremento dei tassi e perdita sul capitale e dall’altro forniscono un flusso cedolare beneficiando dell’investimento diversificato su ogni tipo di forma obbligazionaria.

 

La lezione di Wimbledon

Giocare a Wimbledon, in particolare sul campo centrale, significa entrare nell’Olimpo degli Dèi di questo sport. Dal 1877 fino al 1909 il torneo è stato appannaggio esclusivo degli indigeni: arrivava in finale e regolarmente vinceva un suddito di Sua Maestà. Poi le cose hanno cominciato a cambiare e nell’albo d’oro della manifestazione oggi figurano statunitensi, australiani e francesi. E, fatto salvo il dominio dal 1934 al 1936 di Fred Perry (sì, quello delle magliette), abbiamo dovuto aspettare il 2013 per imbatterci di nuovo in un altro vincitore “born in UK” (per la cronaca, il pur valido Andy Murray). Conta qualcosa? Per gli inglesi certamente sì. Per il valore intrinseco del torneo, assolutamente no. Non è la nazionalità del vincitore che fa la differenza, ma la qualità del gioco che Wimbledon esprime. Sono i campioni che vi hanno partecipato a rendere questo torneo il più bello, spettacolare e seguito al mondo, non che l’abbia vinto un campione di casa. Questo concetto dovrebbe far riflettere la nostra imprenditoria. I presupposti affinché l’Italia sia la Wimbledon globale ci sono tutti, facciamo entrare in campo i campioni.


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