15 gennaio 2020

Private banking, un ruolo chiave per rilanciare la crescita

Pubblicato in: Financial Advise

La crisi finanziaria ha lasciato profonde cicatrici sui risparmiatori italiani, soprattutto a livello psicologico: stando al secondo rapporto Censis/AIPB dedicato al tema “Italiani e ricchezza”, nel corso dell’ultimo decennio è aumentato notevolmente il ricorso al contante, con un progressivo abbandono degli investimenti finanziari. E tutto questo, fondamentalmente, per una questione di scarsa fiducia nelle istituzioni e di preoccupazione per il futuro del Paese.

 

Nel 2018, rileva lo studio, la ricchezza finanziaria delle famiglie italiane è di 4.218 miliardi di euro, lo 0,4% in meno rispetto al 2008. Nel dettaglio, cresce la quota di liquidità – biglietti, monete e depositi – nelle mani delle famiglie: nel 2018 ammonta a 1.390 miliardi di euro, il 33% del totale del portafoglio e il 13,7% in più rispetto al 2008. In aumento anche le riserve assicurative, pari al 23,7% del portafoglio per un valore complessivo di circa 1 miliardo di euro (+44,6% dal 2008), con la quota di riserve assicurative per la vita e fondi pensione quasi raddoppiata in 10 anni (+49,4%). I titoli obbligazionari si sono invece ridotti di quasi un terzo, arrivando a rappresentare il 6,9% del portafoglio delle famiglie dal 21% del 2008; quasi azzerati i titoli a breve termine (-98,8% dal 2008).


Sempre più cash per sentirsi sicuri
Pochi dati che esprimono chiaramente lo stato d’animo dei risparmiatori italiani, totalmente arroccati su posizioni difensive: il cash resta la forma di risparmio più amata, perché risponde al bisogno profondo di sicurezza e non ci sono destinazioni alternative considerate altrettanto importanti. È una trappola sociale, quella della liquidità: voglio cash (o al massimo qualche copertura assicurativa) contro l’insicurezza – e il resto viene dopo. Tanto che oggi il contante complessivo nei portafogli delle famiglie è addirittura superiore al valore del Prodotto Interno Lordo della Spagna. In ogni caso, le famiglie italiane restano ben patrimonializzate, grazie a un sentiero di generazione di risparmio cumulato nel tempo e rimpinguato dagli esiti di buoni investimenti, che è diventato una sorta di “salvagente” di massa oltre che una straordinaria risorsa, ad oggi poco e male utilizzata, per il Paese, si legge nel report. Dunque, rilevano Censis e AIPB, “se l’Italia ha un elevato stock di ricchezza delle famiglie, tradizionalmente cresciuto grazie a buone performance gestionali, negativi sono invece i flussi, che non crescono, sulla scia di un PIL e di un’economia reale che non ripartono”.

 

Come investono gli italiani
Andando ad analizzare più nel dettaglio la diffusione degli strumenti finanziari tra gli italiani, emerge come il 93% delle famiglie disponga di depositi bancari e postali (89,2% nel 2006), mentre appena il 9,2% possiede obbligazioni e fondi comuni, in calo del 24% rispetto ai livelli del 2006, e il 3,5% possiede azioni e partecipazioni (erano il 6,2% nel 2006). Ma il dato che fa riflettere di più è forse quello relativo al possesso di titoli di Stato. Nel 2018 a detenerli era il 6,1% delle famiglie italiane, contro l’8,5% del 2006: stiamo parlando di un calo del 28,2%. Il segnale di una ridotta fiducia nello Stato è quanto mai chiaro: “ben il 61,2% degli italiani – se avesse risparmi da investire – non acquisterebbe BOT, BTP o altri titoli del debito pubblico italiano, l’11% anche se gli è capitato di acquistarli in passato”, riporta lo studio. Insomma, i tempi dei “BOT People” sono ormai un lontano ricordo: oggi prestare soldi allo Stato non è più in cima ai desiderata dei risparmiatori italiani, provati da anni di rendimenti bassi se non negativi sui BOT e colpiti dall’insicurezza diffusa che incentiva a tenere cash fermo, pronto per ogni evenienza. Un altro dato degno di nota (anche se in ultima analisi non così sorprendente) è la decisa opposizione a ogni ulteriore inasprimento della tassazione, fosse pure per finanziare spese sociali che, in astratto, gli italiani reputano essenziali. Eppure, gli italiani – specialmente la fascia di potenziali clienti private, con patrimoni sopra i 500 mila euro – potrebbero giocare un ruolo chiave per rilanciare la crescita del Paese, grazie all’investimento di risorse private a sostegno dell’economia, per esempio nel campo strategico delle infrastrutture.

 

Il ruolo del private banking
Ma come stimolare gli investimenti privati, data la diffidenza diffusa verso le istituzioni e la convinzione che tanto non si può più migliorare la propria condizione – e meno ancora quella dei figli e nipoti? “Qui si innesta il ruolo economico e sociale del private banking che, tradizionalmente, ha ben operato nella gestione dei patrimoni – preservandoli o ampliandoli - ma che oggi può aiutare a far ripartire gli investimenti, diventando protagonista di un sentiero di crescita virtuosa dell’economia e del benessere del Paese”, commenta Giorgio De Rita, segretario generale del Censis. In particolare, prosegue De Rita, il private banking “può giocare una partita nel costruire e promuovere strumenti in grado di orientare le risorse private verso investimenti in infrastrutture, che rispondano ai requisiti di affidabilità e trasparenza dei progetti, pur nell’ovvia presenza del rischio d’impresa”. Se il ritorno di un PIL in crescita passa attraverso un rilancio degli investimenti – e quelli infrastrutturali costituiscono una priorità per il Paese – “è necessario fare leva sulla capacità dei professionisti del private banking di stimolare investitori privati e detentori di patrimoni ad accettare investimenti che destinano risorse alle infrastrutture, le uniche in grado di cambiare il panorama strutturale e quindi dare spinta alla nuova crescita”.


NOTA DI REDAZIONE: gli argomenti, le immagini e i grafici sono frutto di elaborazione interna.

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