Private banking, un ruolo chiave per rilanciare la crescita

Private banking, un ruolo chiave per rilanciare la crescita

Pubblicato il 13 gennaio 2020 in Financial Advise

La crisi finanziaria ha lasciato profonde cicatrici sui risparmiatori italiani, soprattutto a livello psicologico: stando al secondo rapporto Censis/AIPB dedicato al tema “Italiani e ricchezza”, nel corso dell’ultimo decennio è aumentato notevolmente il ricorso al contante, con un progressivo abbandono degli investimenti finanziari. E tutto questo, fondamentalmente, per una questione di scarsa fiducia nelle istituzioni e di preoccupazione per il futuro del Paese.

 

Nel 2018, rileva lo studio, la ricchezza finanziaria delle famiglie italiane è di 4.218 miliardi di euro, lo 0,4% in meno rispetto al 2008. Nel dettaglio, cresce la quota di liquidità – biglietti, monete e depositi – nelle mani delle famiglie: nel 2018 ammonta a 1.390 miliardi di euro, il 33% del totale del portafoglio e il 13,7% in più rispetto al 2008. In aumento anche le riserve assicurative, pari al 23,7% del portafoglio per un valore complessivo di circa 1 miliardo di euro (+44,6% dal 2008), con la quota di riserve assicurative per la vita e fondi pensione quasi raddoppiata in 10 anni (+49,4%). I titoli obbligazionari si sono invece ridotti di quasi un terzo, arrivando a rappresentare il 6,9% del portafoglio delle famiglie dal 21% del 2008; quasi azzerati i titoli a breve termine (-98,8% dal 2008).


Sempre più cash per sentirsi sicuri
Pochi dati che esprimono chiaramente lo stato d’animo dei risparmiatori italiani, totalmente arroccati su posizioni difensive: il cash resta la forma di risparmio più amata, perché risponde al bisogno profondo di sicurezza e non ci sono destinazioni alternative considerate altrettanto importanti. È una trappola sociale, quella della liquidità: voglio cash (o al massimo qualche copertura assicurativa) contro l’insicurezza – e il resto viene dopo. Tanto che oggi il contante complessivo nei portafogli delle famiglie è addirittura superiore al valore del Prodotto Interno Lordo della Spagna. In ogni caso, le famiglie italiane restano ben patrimonializzate, grazie a un sentiero di generazione di risparmio cumulato nel tempo e rimpinguato dagli esiti di buoni investimenti, che è diventato una sorta di “salvagente” di massa oltre che una straordinaria risorsa, ad oggi poco e male utilizzata, per il Paese, si legge nel report. Dunque, rilevano Censis e AIPB, “se l’Italia ha un elevato stock di ricchezza delle famiglie, tradizionalmente cresciuto grazie a buone performance gestionali, negativi sono invece i flussi, che non crescono, sulla scia di un PIL e di un’economia reale che non ripartono”.

 

Come investono gli italiani
Andando ad analizzare più nel dettaglio la diffusione degli strumenti finanziari tra gli italiani, emerge come il 93% delle famiglie disponga di depositi bancari e postali (89,2% nel 2006), mentre appena il 9,2% possiede obbligazioni e fondi comuni, in calo del 24% rispetto ai livelli del 2006, e il 3,5% possiede azioni e partecipazioni (erano il 6,2% nel 2006). Ma il dato che fa riflettere di più è forse quello relativo al possesso di titoli di Stato. Nel 2018 a detenerli era il 6,1% delle famiglie italiane, contro l’8,5% del 2006: stiamo parlando di un calo del 28,2%. Il segnale di una ridotta fiducia nello Stato è quanto mai chiaro: “ben il 61,2% degli italiani – se avesse risparmi da investire – non acquisterebbe BOT, BTP o altri titoli del debito pubblico italiano, l’11% anche se gli è capitato di acquistarli in passato”, riporta lo studio. Insomma, i tempi dei “BOT People” sono ormai un lontano ricordo: oggi prestare soldi allo Stato non è più in cima ai desiderata dei risparmiatori italiani, provati da anni di rendimenti bassi se non negativi sui BOT e colpiti dall’insicurezza diffusa che incentiva a tenere cash fermo, pronto per ogni evenienza. Un altro dato degno di nota (anche se in ultima analisi non così sorprendente) è la decisa opposizione a ogni ulteriore inasprimento della tassazione, fosse pure per finanziare spese sociali che, in astratto, gli italiani reputano essenziali. Eppure, gli italiani – specialmente la fascia di potenziali clienti private, con patrimoni sopra i 500 mila euro – potrebbero giocare un ruolo chiave per rilanciare la crescita del Paese, grazie all’investimento di risorse private a sostegno dell’economia, per esempio nel campo strategico delle infrastrutture.

 

Il ruolo del private banking
Ma come stimolare gli investimenti privati, data la diffidenza diffusa verso le istituzioni e la convinzione che tanto non si può più migliorare la propria condizione – e meno ancora quella dei figli e nipoti? “Qui si innesta il ruolo economico e sociale del private banking che, tradizionalmente, ha ben operato nella gestione dei patrimoni – preservandoli o ampliandoli - ma che oggi può aiutare a far ripartire gli investimenti, diventando protagonista di un sentiero di crescita virtuosa dell’economia e del benessere del Paese”, commenta Giorgio De Rita, segretario generale del Censis. In particolare, prosegue De Rita, il private banking “può giocare una partita nel costruire e promuovere strumenti in grado di orientare le risorse private verso investimenti in infrastrutture, che rispondano ai requisiti di affidabilità e trasparenza dei progetti, pur nell’ovvia presenza del rischio d’impresa”. Se il ritorno di un PIL in crescita passa attraverso un rilancio degli investimenti – e quelli infrastrutturali costituiscono una priorità per il Paese – “è necessario fare leva sulla capacità dei professionisti del private banking di stimolare investitori privati e detentori di patrimoni ad accettare investimenti che destinano risorse alle infrastrutture, le uniche in grado di cambiare il panorama strutturale e quindi dare spinta alla nuova crescita”.

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