La spiegazione più “romantica” – quella fornita da Donald Trump nel suo “Liberation Day” del 2 aprile scorso – è che i dazi “reciproci” imposti a tutti i partner commerciali degli Stati Uniti siano un modo per “fare giustizia”: la tesi del presidente è che gli USA abbiano accettato per anni delle barriere commerciali ingiuste e sproporzionate da parte degli altri Paesi. Un’argomentazione che, pur non essendo totalmente campata per aria, non ha nemmeno delle fondamenta così solide.
La spiegazione più “concreta” è che i dazi hanno il compito di compensare l’impatto dei massicci tagli fiscali e dell’aumento della spesa pubblica previsti dal One Big Beautiful Bill, la legge fiscale approvata lo scorso 4 luglio e fortemente voluta dalla stessa amministrazione Trump.
Dazi: un percorso accidentato
Fatto sta che, dopo l’annuncio del 2 aprile, il percorso delle tariffe commerciali USA è stato tutt’altro che lineare. Prima ci sono state le sospensioni, volte a lasciare spazio alle trattative. Poi c’è stata la fase degli accordi: il primo in ordine di tempo è stato quello con il Regno Unito, che prevede varie riduzioni o eliminazioni di alcuni dazi. L’Europa da parte sua ha concordato un tetto massimo del 15% per le merci esportate negli USA, mentre l’accordo con il Giappone ha portato a una riduzione delle tariffe dal 25% al 15%. Con la Cina le trattative sono ancora in corso e le tariffe restano sospese fino al 10 novembre.
A un certo punto, però, sono arrivati anche i tribunali. Alla fine di agosto, una sentenza della Corte d’Appello USA ha dichiarato illegali la maggior parte dei dazi imposti da Trump, confermando una precedente decisione di un tribunale minore. Il presidente statunitense ha giustificato le sue decisioni sui dazi nell’ottica dell’emergenza nazionale, ai sensi dell’International Emergency Economic Powers Act (IEEPA) del 1977. Ma, secondo i giudici che hanno pronunciato la sentenza, Trump avrebbe interpretato quella legge in modo troppo estensivo.
La Corte d’Appello ha comunque sospeso gli effetti della sua decisione per consentire al presidente di presentare un eventuale ricorso. Cosa che Trump ha prontamente fatto, rivolgendosi alla Corte Suprema, alla quale spetterà l’ultima parola: l’udienza è prevista per il mese di novembre. Fino ad allora, le tariffe restano in vigore.
I temuti impatti negativi non si sono ancora verificati
Al netto del percorso a ostacoli compiuto fin qui, quale potrebbe essere il reale effetto dei dazi sull’economia statunitense? Finora il temuto impatto inflattivo è stato piuttosto contenuto e anche i dati economici mostrano una sostanziale tenuta. I timori di alcuni analisti si concentrano piuttosto sul fatto che le entrate derivanti dai dazi potrebbero non essere sufficienti a compensare tagli fiscali e spesa pubblica, con effetti negativi sul debito che, alla fine di settembre, si attestava a 36.200 miliardi di dollari(1).
Altri sono più ottimisti: l’agenzia S&P Global Ratings – che ha confermato il merito di credito degli Stati Uniti ad AA+ con outlook stabile – ritiene per esempio che i cambiamenti in atto nelle politiche nazionali e internazionali non dovrebbero pesare sulla resilienza dell’economia statunitense(2).
Cosa significa per chi investe?
Per chi investe, i dazi rappresentano una variabile senza dubbio importante, ma non l’unica nel quadro più ampio dell’economia statunitense e dei mercati globali. Le tariffe oggi restano in vigore, in attesa della decisione della Corte Suprema, ma finora l’impatto macroeconomico diretto è stato contenuto e l’economia statunitense conferma la sua stabilità di fondo.
In questo quadro, potrebbe essere utile spiegare ai clienti che ci troviamo davanti a un contesto incerto ma gestibile, nel quale la diversificazione e la resilienza delle aziende statunitensi continuano a giocare a favore degli investitori.
In altre parole: i dazi fanno rumore, ma non cancellano la necessità (e l’opportunità) di costruire portafogli solidi e ben diversificati.
1) fred.stlouisfed.org
2) reuters.com
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