11 aprile 2023

Oggi vs 15 anni fa: perché il 2023 non è un nuovo 2008

Pubblicato in: Economia & Mercati

“Non ci saranno più crisi finanziarie nel nostro tempo”, disse coraggiosamente Janet Yellen il 27 giugno 2017 nel ruolo di presidente della Federal Reserve dal podio della prestigiosa British Academy di Londra. Memore dei fatti del 2008, spiegò: “Se dicessi che non ci sarà mai più una crisi finanziaria, probabilmente mi spingerei troppo in là, ma credo che siamo molto più al sicuro nel nostro tempo e non credo che ci saranno”.


L’attuale segretaria al Tesoro USA avrà ricordato quelle parole la notte tra il 22 e il 23 marzo assistendo alla reazione dei mercati alla sua dichiarazione sull’attuale crisi bancaria, a proposito del fatto che non assicurava la garanzia su tutti i depositi. Una dichiarazione poi parzialmente smentita, con l’indicazione di “possibili azioni aggiuntive per mettere i depositi degli americani al sicuro”.


Per quanto questa crisi, come quella del 2008, sia partita dagli Stati Uniti, e come allora per sconfiggerla non sono bastate solo parole rassicuranti ma sono servite anche azioni concrete, la differenza rispetto al 2008 c’è ed è notevole.


In quel caso, il maggior danno dipese dagli atteggiamenti passivi delle istituzioni: gli istituti di credito con le spalle più larghe tentennarono prima di prestare soccorso e lo stesso fecero le banche centrali, che temporeggiarono prima di irrigare il sistema con tutta la liquidità necessaria a spegnere i focolai. Fortunatamente, oggi il contesto è diverso. E sicuramente c’è stata maggiore attenzione.


Stavolta al centro della scena ci sono i titoli di Stato (e le mosse delle banche centrali)

È anche vero che, per il modo in cui si era generato, quello del 2008 era un incendio troppo grande per poter essere spento sul nascere, alimentato e ingigantito dalla concessione indiscriminata di mutui sui quali le banche e tutta la finanza avevano costruito prodotti speculativi di ogni tipo.


Come scrive Andrew Sorkin, editorialista del NY Times e autore del libro “Too big to fail”, si trattò di operazioni ad alto rischio con una leva finanziaria elevata e un indebitamento in media di 30 a 1. Oggi il caso di studio è la Silicon Valley Bank, la prima banca a lanciare l’allarme e la prima ad andare in crisi, specializzata nel finanziamento di startup e con una clientela piuttosto facoltosa.


Responsabile di “moral hazard”, speculava con i capitali dei depositari e con un “carry trade” spinto, finanziando attività a lunga con denaro incassato a breve. Una volta che la liquidità è calata, i tassi invece di salire sono scesi ed è quindi scattato l’allarme. I risparmiatori sono corsi a salvare i risparmi, ma il denaro non c’era più o era impiegato in perdita.


In un sistema finanziario interconnesso è naturale che un problema in California si ripercuota in Germania, ma il 2008 è un’altra cosa. Oggi il problema non è l’esasperazione di una bolla ingigantita con strumenti artificiali creati dall’ingegneria finanziaria, bensì i classici e più solidi titoli di Stato, che si sono deprezzati a causa delle politiche monetarie delle banche centrali, fattesi più restrittive in breve tempo.


La Silicon Valley Bank e altre banche, ipotizzando una recessione imminente e quindi un allentamento monetario, hanno incrementato il peso dei titoli di Stato, aumentando rischi ed esposizione. Il guaio – se così possiamo chiamarlo – è che la recessione non è arrivata e le banche centrali hanno continuato ad alzare i tassi.


I titoli di Stato, se portati a scadenza e in assenza di default, permettono di incassare quanto investito. Ma se invece li si rivende in risposta a una fase di tensione, può capitare di capitalizzare una perdita. È quanto accaduto alla Silicon Valley Bank.


Rialzo dei tassi in ottica anti-inflazione: potevano le banche centrali fare diversamente? 

Le banche centrali si sono trovate strette tra un’inflazione che è in fase calante ma ancora di allerta e una crisi sul punto di esondare. Non tutto il male, però, viene per nuocere, come ha detto il presidente della Federal Reserve Jerome Powell. L’attuale fase di tensione bancaria può avere sull’economia effetti più restrittivi e frenanti rispetto a un semplice rialzo dei tassi.


Intanto in Europa, dove le banche sono più solide, si è diffusa una tensione spesso irrazionale. La si è percepita in Germania, dove azioni di prevenzione che dimostrano solvibilità sono state viste con allarme. È stato il caso di Deutsche Bank: la banca ha manifestato l’intenzione di riacquistare i Fixed to Fixed Reset Rate Subordinated Tier 2 Notes con scadenza 2028, che hanno un volume di 1,5 miliardi di dollari, il cui rimborso è fissato al 24 maggio e avverrà al 100% del valore nominale, con gli interessi maturati. Ebbene, invece di esser visto come indice di liquidità, questo ha provocato nel mercato una reazione di paura.


Lo ha chiaramente segnalato l’impennata dei credit default swap, una sorta di assicurazione contro il rischio di fallimento di un’azione o altro strumento sottostante. Anche il “matrimonio d’interesse” celebrato da Credit Suisse e UBS in un weekend è un bel segnale: si passa all’azione prima che la situazione sfugga di mano.


Secondo l’ex presidente della Federal Reserve Ben Bernanke, una recessione può essere provocata essenzialmente da due fattori: un crack finanziario o un rialzo troppo veloce dei tassi d’interesse. Per quanto i due fattori si siano palesati, a differenza del 2008 la recessione ancora non si vede all’orizzonte. Pericoli e opportunità delle quali l’ex presidente Fed e attuale segretaria di Stato Janet Yellen è ben consapevole.


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