Brexit, perché non serve essere (troppo) pessimisti
A maggio il Prodotto Interno Lordo del Regno Unito ha registrato un +0,3% da aprile, grazie soprattutto ai servizi: il maggiore incremento da novembre e il quinto dato di crescita più alto del mese a livello mondiale. I dati trimestrali sulla disoccupazione sono i più bassi dal 1975, al 4,2%. Stanti queste premesse, la Bank of England insiste sul percorso di rialzo dei tassi. Tutto bene, quindi? Be’, sì. Con qualche incognita per via della Brexit. Ma se c’è una cosa che la storia recente ci insegna, è che essere troppo pessimisti non serve. Vediamo di riannodare i fili e di capire il perché.
Basta, io esco
Il Regno Unito ha aderito all’Unione Europea nel 1973. Un’adesione che quest’anno festeggia quindi i suoi 45 anni ma che è sempre stata accompagnata da mugugni e musi lunghi: dell’UE i britannici hanno sempre apprezzato il mercato unico, mal digerendone però le ingerenze nella politica interna. Malumori emersi abbastanza chiaramente negli anni – quando più, quando meno – e nel corso delle varie negoziazioni tra UK e UE. Fino al 2015, anno in cui la Gran Bretagna ha dato vita allo European Union Referendum Act 2015, legge che prevedeva la possibilità di un referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’UE. L’idea fu di David Cameron, capo del Partito Conservatore e primo ministro, che sperava così di aumentare la forza contrattuale di Londra di fronte a Bruxelles agitando lo spettro dell’abbandono dell’Unione. Il referendum si è effettivamente svolto il 23 giugno 2016 e, contro ogni aspettativa, ha vinto il “Sì” all’uscita con il 52% dei voti.
L’avvio delle trattative
In seguito, Cameron si è dimesso, David Davis è stato nominato segretario di Stato per l’uscita dall’Unione Europea e Boris Johnson capo per gli Affari Esteri e del Commonwealth, mentre Michel Barnier è diventato capo negoziatore dell’Unione Europea e Guy Verhofstadt il referente dei negoziati per le questioni che riguardano il Parlamento UE. Il 29 marzo 2017 l’ambasciatore del Regno Unito presso l’UE ha consegnato la lettera del nuovo primo ministro Theresa May al presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk, dando così avvio alla procedura prevista dall’articolo 50 del Trattato UE. Tale uscita avverrà a tutti gli effetti alle 23:00 ora di Londra del 29 marzo 2019. A quel punto inizierà un periodo di transizione che si concluderà il 31 dicembre 2020, durante il quale il Regno Unito potrà stipulare accordi commerciali con Paesi terzi (che entreranno in vigore dopo il 2020) ma non avrà più potere decisionale in Europa (di cui continuerà a far parte per tutta la durata della transizione).
Un White Paper indigesto
E arriviamo così al luglio del 2018, quando il governo May ha reso noto il White Paper che contiene le cinque linee guida del suo esecutivo sulla messa in atto della Brexit: ok alla circolazione dei beni ma stop a quella delle persone, dei capitali e dei servizi, con una deroga su studenti, lavoratori qualificati, turisti e titolari di attività economiche, senza che nulla cambi per chi già vive e lavora in UK e per i britannici che vivono e lavorano all’estero. Insomma, una linea “soft” con cui l’esecutivo May spera di realizzare la volontà popolare mantenendo l’attrattività della Gran Bretagna per le imprese e dunque i posti di lavoro. Ma che non piace troppo né alla UE, che dice “o dentro o fuori”, né ai Brexiteer duri e puri, che in sostanza dicono la stessa cosa. E infatti, nei giorni in cui usciva il Libro Bianco, Davis e Johnson si sono dimessi, sostituiti rispettivamente da Dominic Raab e Jeremy Hunt.
E adesso? La lezione della Brexit
Il testo finale sulle condizioni dell’uscita del Regno Unito dall’UE va finalizzato entro ottobre, per poi passare all’esame del Consiglio e del Parlamento Europeo prima di marzo. E se non si arriva all’accordo, come fanno temere i consensi in calo della May e del suo governo? Niente panico, siamo inglesi: salvo proroghe, il Regno Unito diventerebbe un Paese come un altro e, per esempio, sul piano commerciale scatterebbero le regole e le tariffe dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (la WTO). Tuttavia, come dicevamo, la storia di questi due anni ci insegna che essere troppo pessimisti non serve: il Regno Unito può riuscire a gestire anche questa inedita fase storica, basta che decida da che parte stare e ne affronti le conseguenze. Perché, più che le novità, cui tanto prima o poi fanno il callo, alle famiglie e alle imprese che investono non piace l’incertezza.